IL GIUDICE PER LE INDAGINI PRELIMINARI
    Vista  l'istanza  depositata  il  28  marzo  1993 dal difensore di
 Carrabs Guido, attualmente detenuto presso la casa  circondariale  di
 Arezzo,  persona indagata per il reato di associazione per delinquere
 e sottoposta a misura cautelare, a seguito di fermo, con ordinanza  4
 febbraio  1993 per i reati di rapina aggravata compiuta il 9 novembre
 1990 in danno della Banca Toscana di Pescia e tentata rapina compiuta
 in danno delle agenzie di Capannori della Banca Toscana e  del  Monte
 dei Paschi di Siena in data 3/4 dicembre 1990
                             O S S E R V A
    Il   difensore   di   Carrabs   Guido,   premesso  che  sino  alla
 presentazione dell'istanza la procura  della  Repubblica  di  Firenze
 aveva  negato  il  permesso  di  colloquio alla moglie dell'indagato,
 senza peraltro rendere noti i motivi del  diniego,  chiede  che  tale
 permesso di colloquio sia accordato dal g.i.p. o in subordine che sia
 sollevata  questione  di legittimita' costituzionale degli artt. 18 e
 11 ord. pen, 209 e 240 norme coordinamento c.p.p. nella parte in  cui
 dette  norme  non  prevedono  l'esclusiva  competenza  del  g.i.p.  a
 decidere sui colloqui tra detenuti e familiari per  contrasto  con  i
 principi stabiliti dagli artt. 3, 102 e 111 della Costituzione.
    Deve  ritenersi  che le doglianze della difesa circa il diniego di
 colloquio  alla  moglie  del  Carrabs  e  la  mancanza   formale   di
 motivazione  di tale diniego corrisponda a realta'. Infatti, malgrado
 sin dal 30 marzo 1993 questo  ufficio  abbia  richiesto  copia  della
 richiesta  di  colloquio  e  del provvedimento di reiezione, inviando
 anche  copia  dell'istanza  al  difensore,  nessun  atto  e   nessuna
 osservazione sono pervenuti dal p.m.
    Le  richieste  formulate  dal difensore dell'indagato non appaiono
 accoglibili.
    Contrariamente a quanto sostenuto dalla difesa del Carrabs si deve
 senz'altro  ritenere  che  l'art.  240  del  d.lgs  n.  271/1989  sia
 applicabile,  come  del resto si rileva dal testo stesso della norma,
 solo  ai  provvedimenti  relativi  ai  trasferimenti  degli  imputati
 soggetti a misura di custodia cautelare in carcere in ospedali civili
 od  altri  luoghi  di  cura.  Invero  non puo' estendersi l'ambito di
 applicabilita' di tale norma ne' in  considerazione  di  un  supposto
 carattere  paradigmatico  della norma contenuta nell'art. 11, secondo
 comma,  ordinamento  penitenziario,  ne'  in  considerazione  di  una
 supposta  corrispondenza  delle  funzioni  dell'ufficio  del g.i.p. a
 quelle precedentemente esercitate dal p.m. o dal  giudice  istruttore
 ai  sensi  dell'art.  209  dello stesso d.lgs. n.  271/1989. Non puo'
 assumersi  che  l'art.  11  c.  ord.  penitenziario  funga  da  norma
 paradigmatica  solo  perche'  l'art.  18,  ottavo  comma, e l'art. 30
 dell'ordinamento   penitenziario   (rispettivamente   attinenti    ai
 colloqui,   visti  di  corrispondenza  e  autorizzazioni  a  colloqui
 telefonici ed ai  permessi  per  imputati  detenuti)  contengono  dei
 richiami  a  tale  disposizione.  A ben vedere infatti e' ben diversa
 l'articolazione delle competenze determinata  nell'art.  11,  secondo
 comma,  in  tema di trasferimenti dal carcere all'ospedale rispetto a
 quella fissata  nell'art.  18,  ottavo  comma,  e  nell'art.  30.  In
 proposito  e'  sufficente ricordare che per l'art. 11, secondo comma,
 e' competente al provvedimento per gli imputati condannati  in  primo
 grado  il  giudice  di  sorveglianza, per l'art. 18, ottavo comma, il
 direttore dell'istituto penitenziario per i colloqui  dei  condannati
 in  primo  grado  e l'autorita' giudiziaria procedente per visti alla
 corrispondenza e autorizzazioni alla corrispondenza  telefonica,  per
 l'art.  30 e' sempre competente l'autorita' giudiziaria procedente in
 tutte le fasi del processo.
    Egualmente  non  corrispondente  alla  realta'  normativa   appare
 affermare   che   le  funzioni  del  g.i.p.  corrispondano  a  quelle
 esercitate, secondo il codice  del  1930  dal  p.m.  nell'istruttoria
 sommataria  e  dal  g.i.  nella  formale ignorando che l'attivita' di
 indagine preliminare e' di competenza in  via  pressoche'  piena  del
 p.m.  e  che  nella  materia  in esame interessa individuare l'organo
 giudiziario in grado di contemporare primari  diritti  della  persona
 soggetta  alla misura cautelare (e, indirettamente dei suoi familiari
 o comunque delle persone a lui vicine) con l'esigenza di  repressione
 dei reati e quindi di tutela della collettivita'. In tale prospettiva
 appare  evidente  che  tali  funzioni  non  possono, in prima istanza
 essere  attribuite  se  non  all'organo  che  direttamente  segue  le
 indagini  e che quindi e' in grado di individuare se e quando debbano
 prevalere gli uni e gli altri  interessi  in  relazione  allo  stesso
 andamento  delle  indagini  ed  ai  concreti pericoli di inquinamento
 delle medesime. Proprio in base  all'art.  209  disp.  attuazione  si
 ritiene  pertanto  di  individuare  nel  p.m. l'organo che decide sui
 permessi di colloquio nella fase delle indagini preliminari.
    Escluso che allo  stato  della  normativa  possa  configurarsi  la
 competenza  del  g.i.p. alla concessione dei colloqui tra la moglie e
 Carrabs  Guido,  deve  altresi'  dichiararsi  la  infondatezza  della
 questione  di  costituzionalita' delle norme di cui agli artt. 18, 11
 ord. pen e 209 e 240 d.lgs. n. 271/1989 in riferimento agli artt.  3,
 102 e 111 della Costituzione. Si osserva infatti che contrariamente a
 quanto  ritenuto  dalla  difesa,  secondo  la costante giurisprudenza
 della  Corte  costituzionale  il   p.m.   e'   esso   stesso   organo
 giurisdizionale  e  pertanto  sotto il profilo della violazione della
 riserva di giurisdizione non  si  puo'  lamentare  alcuna  violazione
 delle norme cositutuzionali citate. Del resto va rilevato che secondo
 la  giurisprudenza  della  Corte  di  cassazione  ne' i provvedimenti
 relativi ai permessi di colloquio, ne' i provvedimenti in materia  di
 trasferimenti  agli  ospedali  civili, ne' in fine quelli relativi ai
 permessi hanno natura giurisdizionale. Essi infatti non inciderebbero
 sulla  liberta'  personale  dell'imputato  ed   hanno   mera   natura
 amministrativa  attenendo  alle modalita' di trattamento del detenuto
 (v. Cass. sez. sent. 14 febbraio 1990 Scrima; Cass. sez. 1,  sent.  3
 luglio  1987  Rapisarda;  Cass.  sez. 1 ord. 7 febbraio 1977 Gattini;
 Cass. sez. 1 ord. 16 gennaio 1991 Paiusti).
    Anche sotto il profilo della violazione dell'ar. 111, pertanto, la
 eccezione  di  costituzionalita'  prospettata  dalla  difesa   appare
 manifestamente infondata.
    Si  ritiene  peraltro  che  debba  sollevarsi  di  ufficio diversa
 questione di costituzionalita': la normativa in vigore nella  materia
 in  esame (art. 18, ottavo comma, della legge 26 luglio 1975, n. 354,
 come modificata dall'art. 4 della legge 10  ottobre  1986,  n.  663),
 contrariamente  a  quanto  previsto  dall'art.  30- bis in materia di
 permessi, non prevede ne' che i provvedimenti siano motivati ne'  che
 essi  siano  soggetti  ad  alcun  tipo di reclamo o ad altra forma di
 controllo. Cio' fa' si' che provvedimenti che comunque incidono  -  e
 forse in maniera piu' pregnante di quelli attinenti ai permessi - sul
 diritto  alla  vita  familiare  dei  detenuti  in  attesa di giudizio
 nonche' sulla loro liberta' di comunicazione - posto che  i  colloqui
 sono  il  mezzo  fondamentale,  oltre  alla  corrispondenza  ed  alle
 telefonate, per la conservazione di rapporti continui con i familiari
 - su fondamentali diritti della  persona  (v.  artt.  2  e  29  della
 Costituzione  e  art.  8  della  Convenzione  per la salvaguardia dei
 diritti dell'uomo e delle liberta' fondamentali, ratificata con legge
 4 agosto 1955, n. 848, art. 15 della Costituzione)  sono,  di  fatto,
 rimessi  alla completa discrezionalita' dell'organo che li adotta. E'
 cosi'  vanificata  sia  la  garanzia  costituzionale  di  inviolabili
 diritti   della   persona  sia  lo  stesso  intento  del  legislatore
 ordinario. In effetti il legislatore ordinario riconosce ai  detenuti
 definitivi   pienamente  il  diritto  ai  colloqui  con  i  familiari
 stabilendo che  essi  non  possono  essere  rifiutati  dall'autorita'
 carceraria neppure ai condannati sottoposti al regime di sorveglianza
 speciale. Lo stesso legislatore ordinario all'art. 277 del c.p.p. poi
 proclama   che  "le  modalita'  di  esecuzione  delle  misure  devono
 salvaguardare i diritti delle  persone  ad  essa  sottoposta  il  cui
 esercizio  non sia l'incompatibile con le esigenze cautelari del caso
 concreto" ed egualmente nell'art. 1 della legge n.  354/1975  afferma
 che  "il trattamento penitenziario deve essere conforme ad umanita' e
 deve assicurare il rispetto della dignita' della persona".
    La mancata previsone di motivazione del diniego di colloqui  e  la
 mancata previsione di possibilita' di reclamo o comunque di controllo
 determina  inoltre  una  eguaglianza di trattamento in situazioni di-
 verse - e quindi una lesione del principio di eguaglianza - in  tutti
 i  casi  nei  quali,  non essendo giustificati i dinieghi da concrete
 esigenze attinenti alle indagini, i detenuti in attesa di giudizio si
 vedono respinti i permessi di colloquio e sono quindi parificati  nel
 trattamento  ai  detenuti per i quali, invece, concrete necessita' di
 indagine giustificano il divieto.
    Le  eccezioni  sopra  prospettate  appaiono  rilevanti nel caso in
 esame essendo evidente che qualora esse fossero accolte la  richiesta
 in   esame  non  dovrebbe  essere  dichiarata  inammissibile  perche'
 presentata ad organo incompetente, ma potrebbe  essere  o  da  questo
 stesso  ufficio  valutata  come reclamo o essere trasmessa all'organo
 competente per  il  controllo  ove  tale  organo  fosse  diversamente
 indicato.
    Poiche'  trattasi di questione attinente a imputato detenuto se ne
 segnala la particolare urgenza.